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       Sovrano Santuario Italiano



N.IV Aprile 2009
   

(G. de Turris)L'immaginario dei Rosacroce


 

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L’IMMAGINARIO DEI ROSACROCE

(Gianfranco de Turris)

Ludibrium curiosum”, “ludibrium vanae Famae”, “ludibrium fictitiae Fraternitatis Rosae-Crucis”: sono tre affermazioni di Johann Valentin Andreae (1586-1654), il quale si è attribuita la paternità delle Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz (1616) nella sua Vita ad ipso conscripta (redatta verso il 1640, ma pubblicata in tedesco soltanto nel 1799 e in latino addirittura oltre due secoli dopo, nel 1849), contenute rispettivamente nel Menippus (1617), in una lettera a Comenius del 1629 e in un indirizzo al principe Augusto del 1642.
Intorno a queste parole latine - ludibrium e fictitia - si sono accapigliati gli studiosi e gli interpreti: erano intese in senso positivo, negativo o semplicemente descrittivo? Non si tratta di una questione marginale, o di una pignoleria da filologi: al contrario, il problema è veramente essenziale perché esso coinvolge l’intera problematica della Rosa-Croce, il cui “mistero” può essere almeno in parte sciolto a seconda del valore da dare ai due termini. Infatti, le Nozze chimiche, come scrive Frances Yates nel suo L’Illuminismo dei Rosacroce (Einaudi), “hanno valore quasi di un terzo manifesto rosacrociano”: la definizione che quindi ne dà il suo autore si riverbera sui due precedenti manifesti, Fama del 1614 e Confessio del 1615, e sull’intero senso da conferire alla Fraternitas.
E’ indubbio che ludibrium, benché in italiano abbia assunto un senso negativo pressoché univoco, come si evince da qualsiasi buon vocabolario latino, può essere invece inteso in due modi: da un lato in senso negativo come appunto “ludibrio”, “scherno”, “irrisione”; da un altro in senso descrittivo e comunque non negativo come “scherzo”, “gioco” (ad esempio: “ludibria fortunae”. gli scherzi del caso, in Cicerone; e “ludibria ventis”, gli scherzi del vento, in Virgilio). Inoltre, gli aggettivi che ne derivano, ludibundus e ludicer, hanno un’accezione assai più vicina al secondo significato: ludibundus sta per “chi si abbandona alla gioia, allo scherzo, all’allegria”, e ludicer “che serve da passatempo, gioco, divertimento”, addirittura sta anche per “teatrale, scenico, da commediante”.
Fictitia è un vocabolo che non si trova nel latino classico: esistono invece l’avverbio ficte, l’aggettivo ficticius, il sostantivo fictio, da cui quel termine tardo palesemente deriva: il primo significa sia “falsamente” che “apparentemente”; il secondo sia “falsificato” che “fittizio”; il terzo ha addirittura tre sensi: “creazione-composizione”, “finzione-ipotesi-supposizione”, “menzogna-frode-ipocrisia” (la parola inglese fiction, oggi ampiamente usata anche in italiano per intendere non solo la narrativa in genere ma anche le produzioni cinematografiche e televisive, sembra evidente che derivi da fictio inteso complessivamente).
Come si vede, anche in questo caso il senso da dare alle intenzioni di Andreae, e quindi al fenomeno dei Rosa-Croce, può essere duplice e opposto, negativo o positivo, a seconda dell’approccio critico generale di chi se ne occupa: la “finzione” della Confraternita o Fraternità può risultare così una semplice “invenzione”, un giocoso “scherzo”, o un peggiore “inganno”.
In genere, tutti coloro i quali, sin dal XVII secolo, si sono occupati dei Rosa-Croce a livello storico, critico, interpretativo, non sono mai riusciti ad assumere una posizione equilibrata, mediana: o si era a favore, o si era ostili, e ciò vale sia per i contemporanei che subito si schierarono da una parte o dall’altra, sia per gli studiosi di oggi. E’ questo peraltro un atteggiamento che si ripete sempre di fronte a fenomeni che toccano problemi spirituali. Il loro mistero, e quindi il loro fascino, è tale che tocca e coinvolge una sfera che non è soltanto quella puramente intellettuale, talché quasi istintivamente, al di là della mera razionalità, a seconda della propria formazione culturale e, diremmo, mentale, si è indotti a prendere posizione o per un partito o per l’altro, mettendo al servigio del pro o del contro tutte le proprie doti specialistiche, dialettiche, scientifiche.
E così pagine e pagine, libri su libri, hanno proposto analisi, interpretazioni, deduzioni sulla vita e le opere di Andreae: essendo l’unico ad essersi apertamente attribuito la paternità di un testo rosacroce, capire i suoi intenti avrebbe significato risolvere l’enigma dell’intera Confraternita. Da un lato dunque chi interpreta negativamente i due termini latini come ludibrio, inganno, mistificazione; dall’altro coloro che li interpretano come invenzione, scherzo, gioco, e quindi sia “mito fantastico” e “allegoria biblica” (Paul Arnold), sia addirittura “scherzo mistico”, “commedia”, “scena drammatica di temi buoni e utili” (Frances Yates, la quale mette in risalto l’interesse di Andreae per la rappresentazione teatrale come traspare anche dalle Nozze chimiche). Il risultato è, allora, “l’impossibilità di risolvere definitivamente il mistero dato che gran parte di questa letteratura pare reggersi anche sul gioco, sull’ammicco, sul qui-lo-dico-qui-lo-nego” (Umberto Eco).
Queste conclusioni del semiologo di Alessandria, insolitamente possibiliste per chi ne conosca l’intransigenza razionalista nei confronti di certi argomenti, ma anche il suo lato debole - proprio il gioco, il calembour, la bibliofilia - sono poste come chiusa della introduzione alla traduzione italiana della Storia dei Rosa-Croce del citato Paul Arnold (Bompiani, 1989), un saggio importante sull’argomento ma di cui Eco mette in risalto, et pour cause, praticamente soltanto la pars destruens. E’ viceversa fondamentale l’aspetto propositivo, il giudizio che l’autore francese dà al termine delle sue indagini e che conviene riportare abbastanza per esteso, perché il nòcciolo dell’intera questione, dell’intero mistero, ci sembra proprio che risieda qui:
“Per gli autori e i difensori dei manifesti la Confraternita non è una realtà ma una finzione, un simbolo solenne, una sorta di allegoria seducente. Ora comprendiamo perché sembravano passarsi parola nel chiamare i loro scritti burle o divertimenti, perché sono stati manifestamente poco seri nelle loro descrizioni mitiche della Confraternita, della vita dei Fratelli, della procedura di affiliazione; perché nessuno di loro ha mai incontrato dei Fratelli; perché essi stessi non lo erano; perché gli avversari della dottrina continuavano a sfidare la Confraternita a manifestarsi, e i Fratelli a restare nel vago; perché, a detta di Andreae, si possono trovare solo falsi Fratelli che insieme formano una nuova torre di Babele (...). All’inizio non esisteva alcuna Confraternita Rosa-Croce. C’era solo una allegoria e una dottrina della salvezza spirituale proposte sotto forma di ludibrium ‘che perseguiva un fine serio e ispirava l’amore per il cristianesimo’. E’ infatti grazie a questo gioco divertente che si spera di veder sorgere l’aurora spirituale di cui parla la Confessio”.
Insomma, quel “complotto dei saggi”, come ben lo definisce Jean Pierre Bayard (I Rosacroce. Storia dottrine simboli, Mediterranee, 1990),che utilizzava il simbolismo ermetico e si ricollegava a dottrine spirituali precedenti sperando di approdare a lidi nuovi. Nelle Nozze chimiche, dopo l’operazione alchemica che ha portato alla creazione della Fenice e alla rinascita del Re e della Regina nella Torre dell’Olimpo a sette piani, si è giustamente notato come Christian Rosenkreutz ripassi il mare con una flottiglia di navi che recano ognuna un segno dello Zodiaco (la sua ha quello della Bilancia) ed una volta giunto a terra si unisca a dei cavalieri che innalzano una bandiera bianca con al centro una croce rossa, cioé il simbolo di San Giorgio e dei Templari.
Non è un caso allora che, come tutte indistintamente le opere ermetiche del tempo, e dei secoli precedenti, le Nozze chimiche si presentino come una vera e propria narrazione (hermetic romance viene definito nella prima traduzione inglese del 1690, romance e non novel) ricchissima di simboli e portino sul frontespizio due significativi motti in latino, allo stesso tempo
ermetici ed evangelici: “Arcana publicata vilescunt: et gratiam prophanata emittunt. Ergo: ne Margaritas obijsce porcis, seu Asino substerne rosas”. Vale a dire: “Gli arcani svelati vengono sviliti: e quello che è profanato distrugge la grazia. Quindi: non gettare le perle ai porci, e non preparare un letto di rose a un asino”. Il motivo essenziale e vero dell’“ammicco”, del “qui-lo-dico-e-qui-lo-nego” di Umberto Eco sta esattamente qui.
Le Nozze chimiche sono allora “un notevole racconto cavalleresco, o romanzo, o fantasia” (Yates); addirittura si può ben dire che “l’opera racconta in forma di parabola il cammino verso l’illuminazione suprema”, quindi non “una mistificazione, un ‘travestimento’, ben riuscito della Fama allo scopo di ridicolizzare la Confraternita”, bensì “il riassunto migliore del messaggio rosacrociano” (Arnold): “Così, ben lungi dall’essere una parodia, le Nozze chimiche costituiscono il lascito più prestigioso delle aspirazioni teosofiche della Rosa-Croce originaria e la testimonianza del ruolo preponderante che Andreae ha giocato nell’elaborazione del mito e della dottrina rosacrociana”, conclude sempre lo scrittore francese.
Mito, dunque. E quindi vicenda sacra esemplare che trasmette il suo messaggio lungo il tempo. Nonostante che la storia leggendaria di Christian Rosenkreutz sia esposta nella Fama (mentre la Confessio è una illustrazione degli scopi della Confraternita), sono senza dubbio le Nozze chimiche che forniscono il maggior numero di riferimenti simbolico-ermetici, e di conseguenza la maggiore suggestione, al riguardo. Per la verità, nell’opera che, per sua stessa ammissione, Andreae avrebbe scritto da ragazzo, i simboli si accavallano ai simboli in un modo tanto eccessivo da indurre alla fine dell’Ottocento Karl Kiesewetter a definirlo “un libro di alchimia assolutamente astruso e talmente bizzarro che nessuno è capace di trovargli un senso minimamente tollerabile”.
In realtà, leggendo questo “romanzo ermetico” si ha effettivamente l’impressione di un sovraccarico di simboli non sempre possibili da spiegare, soprattutto perché sono sovrapposti e intersecati fra loro. Questo sistema può però avere una duplice spiegazione: da un lato una fantasia giovanile, esuberante e incontrollata, che può essere stata influenzata e aver tratto diretta ispirazione, come ipotizzano alcuni esegeti, dalla Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna del 1499 (A.C.Ambesi), sia dal poema The Faerie Queen di Edmund Spenser del 1590 (P.Arnold), ma anche - aggiungiamo - dai molti e popolari romanzi del ciclo arturiano, soprattutto per il senso dall’avanture che la pervade; dall’altro lato, il preciso intento di sviare i curiosi, gli impreparati, gli inadatti, gli inesperti, come ben indicano i due motti latini riportati nel frontespizio del libro, essenziali dunque - come moniti e come segnali delle intenzioni dell’autore - per la comprensione dell’opera, ma ai quali raramente (e stranamente) gli esegeti fanno riferimento.
Detto ciò, non è che il testo sia “assolutamente astruso” e privo di “un senso minimamente tollerabile” come dice Kiesewetter. Bisogna solo impegnarsi a sviscerarlo: in linea di massima si può comunque dire con Arnold che esso espone “il duro cammino della salvezza attraverso l’illuminazione e l’estasi”. E questo, aggiungiamo noi,  operando a tre livelli di lettura: il primo è quello di un vero e proprio romanzo fantastico, estremamente piacevole e avvincente, non privo anche di qualità letterarie (ed è in fondo proprio per questo aspetto che la sua fama si è trasmessa nei secoli, più di quella dei due primi manifesti); ed è esattamente così che Andreae lo definisce nella sua autobiografia: “un ameno componimento pieno di scene d’avventura”. Il tipo di “avventura” che andava di moda tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento. C’è qui tutto l’armamentario narrativo dell’epoca: il viaggio periglioso, le prove da superare, il castello misterioso con i suoi abitanti, i segreti che custodisce, morti, resurrezioni, spettacoli teatrali, operazioni magiche, personaggi enigmatici, esseri invisibili, cripte e sotterranei, torri cupe, procedimenti alchemici, unicorni e fenici, peregrinazioni per terra e per mare, oggetti strani e invenzioni inusitate. Tutto quel che poteva occorrere per captare l’attenzione dei lettori, e non solo quelli a lui contemporanei: una rivisitazione, come si è detto, del classico romanzo cavalleresco, da Chrétien de Troyes a Wolfram von Eschenbach. La stessa “moderna” trovata conclusiva (le due pagine finali mancanti) è tale da suscitare curiosità e attesa in quella parte di pubblico che si limitava a leggere l’opera soltanto per il gusto di assaporare una “avventura mistica”. Insomma, il recupero di tematiche classiche sempre appassionanti derivate dalla “materia di Bretagna”, più un simbolismo alchemico utile per trasmettere specifici “messaggi” occulti.
Il secondo livello di lettura è, si potrebbe dire, proprio quello del ludibrium inteso nel suo senso negativo di scherno e irrisione. Non certo, però, nei confronti della stessa Rosa-Croce, ma di due categorie di personaggi ben evidenziati nella narrazione: coloro i quali all’inizio della storia riescono non si sa bene come a raggiungere il castello del Re percorrendo la prima delle quattro vie a disposizione dei viaggiatori invitati alle nozze, ma che si rivelano al dunque soltanto degli sbruffoni, dei millantatori, dei provocatori, e che non riescono a superare la prova decisiva della Bilancia degli Artisti, e quindi vengono scacciati o addirittura condannati a morte; e coloro i quali, pur avendo superato i pesi della Bilancia, non hanno ancora raggiunto un sufficiente grado di iniziazione lungo la via della perfezione spirituale e continuano a credere che lo scopo dell’alchimia sia soltanto quello di preparare l’Elisir di Lunga Vita o la Pietra Filosofale: cioè credono che il fine vero dell’Ars Regia sia la ricerca dell’immortalità del corpo e la fabbricazione dell’oro materiale. Essi sono i semplici “soffiatori” e proprio a tale incombenza li vede intenti il protagonista spiandoli dall’abbaino in cui si trova per completare la Grande Opera, quella vera, quella che consiste nel portare a termine le Nozze chimiche facendo penetrare l’anima nei corpi rigenerati del Re e della Regina, mentre al piano inferiore i “soffiatori” si affannano a produrre l’oro, credendo a loro volta di compiere la Grande Opera. Su questi punti Andreae è chiarissimo e non si può equivocare: soltanto Rosenkreutz e i suoi tre amici hanno effettivamente portato a termine la loro missione.
Il terzo livello, infine, è evidentemente il contraltare del precedente: una esposizione - per chi la sa capire attraverso “il velame de li versi strani” - di tutto quanto è possibile trasmettere per iscritto circa operazioni iniziatiche, un iter spirituale per raggiungere uno status più elevato. Nelle Nozze chimiche c’è veramente tutto a ben vedere, dopo averle scrostate e lette nel loro significato essenziale (Irenaeus Agnostus, dopo aver esaminato il testo manoscritto, afferma in una lettera del 3 dicembre 1615: “Questo trattato contiene tutta l’arte alchemica descritta in forma enigmatica”). In questa sede non ci si può addentrare in un esame minuzioso dei principali nodi simbolici del testo, anche se ciò è sempre possibile farlo con l’ausilio di alcune opere che, nell’epoca moderna, hanno analizzato il senso spirituale e iniziatico dell’Arte Regia, sviscerandone il simbolismo: soprattutto La Tradizione ermetica di Julius Evola, Alchimia di Titus Burckhardt e L’Alchimia di Eugène Canseliet, in parte Le Meraviglie della Natura di Elèmire Zolla e, perchè no?, per certi aspetti anche Psicologia e alchimia  di Carl Gustav Jung.
Si può comunque dire che gli stessi elementi che in precedenza sono stati visti nella semplice ottica “avventurosa”, qui prendono tutt’altro significato di fondo ai nostri occhi: la “chiamata” da parte di una Vergine in veste d’Angelo; la scelta affidata al caso, al fato, di una delle quattro vie canoniche dell’Alchimia (umida, umida/secca, secca/umida, secca) seguendo una colomba e un corvo; il superamento di varie prove costituite prima dal Guardiano della Soglia e poi dalla Bilancia degli Artisti; la tonsura, il digiuno; la visita al Castello, alle sue meraviglie, ai suoi sotterranei; la visione non volontaria di “Venere senza veli”; l’episodio del leone che spezza la spada e dell’unicorno; la decapitazione dei sovrani ad opera di un negro a sua volta decollato (e qui basti ricordare che “etiope” era uno dei nomi attribuiti alla “materia prima” dopo alcune fasi di passaggio dell’Opera al Nero); l’uso che si fa della testa di quest’ultimo; l’inganno nei confronti di coloro i quali non sono del tutto pronti, facendo loro credere che i cadaveri dei monarchi vengono sepolti; la partenza verso la Torre dell’Olimpo sita su un’isola quadrata a bordo di navi con i segni dei pianeti sulle vele.
Eccola: è una torre a sette piani come sette sono gli stati dell’operazione alchemica, e come sono sette i giorni in cui si svolge l’avanture di Christian Rosenkreutz: al primo piano si preparano tinture ed essenze; al secondo si sciolgono i corpi dei sovrani defunti grazie alla testa del moro decapitato e se ne ricava un liquore, chiuso poi in una sfera d’oro; al terzo piano la sfera viene esposta alla luce concentrata del Sole grazie ad un gioco di specchi, in modo che nella sfera si formi un uovo; al quarto piano l’uovo viene sepolto nella sabbia calda e da esso nasce un “uccello selvaggio” con le piume nere, la Fenice, che viene nutrita con il sangue dei sovrani: le penne originarie cadono sostituite dalle bianche e poi dalle multicolori; al quinto piano la Fenice viene immersa in un bagno che le fa perdere le nuove piume dalle quali si ricava una tintura blu con la quale la si dipinge; al sesto piano, al momento di una particolare congiunzione astrale, si decapita l’uccello, il corpo viene incenerito e le ceneri conservate; al settimo e ultimo piano vanno soltanto i “soffiatori” che si affannano intorno ai fornelli “sino a perdere fiato”; nell’abbaino, che ha una cupola a forma di sette sfere concave e che nessuno sa essere al di sopra del settimo piano, vanno invece i veri adepti, i “filosofi” (che sono quattro - Rosenkreutz e tre amici - come quattro sono gli adepti iniziali della Rosa-Croce, secondo quanto si dice nella Fama): qui viene ridata vita al Re e alla Regina umidificando e riscaldando le ceneri della Fenice e poi versandole in due stampi da cui escono due figurine di pochi centimetri (gli homunculi paracelsiani, si potrebbe dire) che assumono forma umana dopo essere state nutrite con il sangue sgorgato dal petto della Fenice; l’anima giungerà infine attraverso il tetto, anzi una triplice anima, secondo gli insegnamenti tradizionali. Il ritorno avviene su navi che questa volta - passando dall’astronomia all’astrologia - hanno sulle vele i simboli dello Zodiaco, e poi insieme ad un grupppo di cavalieri che reca la bandiera bianca e la croce rossa dell’Ordine del Tempio, come si è già detto.
Ma... Ma a quanto pare Christian Rosenkreutz, nonostante fosse l’adepto privilegiato che, non solo rispetto ai cinque “soffiatori”, ma anche rispetto ai suoi tre amici “filosofi”, aveva capito in anticipo la reale portata dei procedimenti, sia perché aiutato esplicitamente, sia grazie al caso, sia per merito del suo intuito, e nonostante sia ormai Eques Aurei Lapidis, risulta però non essere ancora degno della ricompensa regale: infatti, egli ha visto “Venere senza veli” mentre era addormentata. Di conseguenza per questa sua “colpa” viene punito: deve sostituire nel suo compito il primo Guardiano che tempo prima si era macchiato dello stesso peccato. Le ultime righe del libro, però, denunciando la perdita di due fogli, l’autore li sunteggia rendendo noto al lettore che alla fine il protagonista se ne torna invece a casa sua.
Come si può spiegare una conclusione così inattesa e sconcertante, se non proprio deludente, rispetto a tutto quanto la precede? Non è in contraddizione con l’essere le Nozze chimiche una specie di “manuale di ascesi pratica”, come è stato anche definito? In effetti, i vari autori che si sono occupati della Rosa-Croce ed hanno effettuato l’esegesi del “romanzo ermetico” di Andreae, non si sono soffermati molto o affatto su questo particolare, peraltro fondamentale perché sembrerebbe mettere in dubbio l’efficacia dell’iter iniziatico di Rosenkreutz. L’unico che abbia tentato di darne una spiegazione è Alberto Cesare Ambesi nel suo I Rosacroce (Armenia, 1975): egli ritiene che il finale tronco alluda ad un “errore di Andreae alla soglia di un precoce trionfo ermetico”. Questo errore non deve essere inteso, però, su di un piano meramente umano, e cioè riferentesi ad alcuni incresciosi episodi (sessuali) dell’epoca goliardica, ma soprattutto ad un piano simbolico ed esoterico: aver osservato “Venere senza veli” vorrà dire allora, spiega Ambesi, “non aver percepito nell’Eros umano il riflesso di quello celeste (...) un mancato processo di identificazione della Venere umana con la Venus Urania. Il che significa che il fittizio Rosenkreutz di Andreae, nelle fasi ultime di consacrazione, essendo venuto a contatto con una forza fecondatrice che ancora doveva attendere un lasso di tempo per sciogliersi e generare, seppe solo cogliere l’aspetto fascinatore di essa, subendone in pieno il potere paralizzante”.
Ipotesi verosimile, cui da parte nostra possiamo aggiungerne un’altra a completamento. Johann Valentin era nato il 17 agosto 1586 (morirà il 27 giugno 1654) ed aveva iniziato a frequentare l’Università di Tubinga nel 1601: per sua ammissione avrebbe redatto le Nozze chimiche  fra il 1602 e il 1604, dunque fra i 16 e i 18 anni; fu espulso dall’ateneo nel 1609, dopo essersi diplomato magister nel 1605, a causa di una “vergognosa faccenda”, come lui stesso la definisce, che immischiava alcuni suoi compagni e delle “etere” ed in cui risultò coinvolto. Ora, se l’episodio avvenne due o tre anni dopo la composizione delle Nozze, come possono farvi allusione queste ultime? I casi allora sono due: o il “romanzo ermetico” venne redatto in realtà posteriormente alla data assegnatagli dal suo stesso autore parecchi anni dopo nella sua autobiografia (Paul Arnold ha evidenziato, del resto, diversi punti in cui Andreae ha “barato” non scrivendo la verità); oppure la brusca cesura del testo, che in origine non doveva esistere perché il finale era diverso (l’iniziazione raggiunta), venne appositamente effettuata nel 1616, quando venne stampata la prima edizione anonima delle Nozze. Non ci sono altre possibilità, crediamo.
Non ci pare che questa discrepanza di date ed episodi sia stata adeguatamente messa in luce sino ad ora, e si sia cercato di spiegarne i motivi. Peraltro, essa potrebbe risolvere alcuni punti oscuri ed alcune apparenti contraddizioni: ad esempio, la eccessiva precocità, la grande esperienza nel trattare il materiale simbolico-ermetico dimostrate da un ragazzo di 16-18 anni. Nella prima ipotesi, infatti, l’opera potrebbe essere stata composta in seguito, forse dopo la comparsa della Fama, in cui c’è il primo nucleo del mito di Christian Rosenkreutz, e che si fa risalire nella sua forma manoscritta almeno al 1610-1612, quando dunque Andreae aveva già 24-26 anni e potrebbe essere stato sollecitato a porre mano alle Nozze chimiche partendo da quella suggestione: avrebbe allora potuto parlare con cognizione di causa di un evento del 1606 (lo scandalo universirario delle “etere”). Nel secondo caso - che cioè il “romanzo ermetico” sia stato scritto effettivamente da 16 anni - si potrebbe addirittura pensare che siano la Fama (in cui il protagonista è indicato solo con le iniziali C.R.C.) e la Confessio (in cui il nome è citato per esteso) a derivare dalle Nozze scritte intorno al 1604 e diffuse manoscritte attraverso il “circolo di Tubinga”. In ogni modo, un testo del 1602-1604, se accettiamo la tesi di Ambesi, non avrebbe mai potuto riferirsi ad un evento reale posteriore ancorché rivisitato simbolicamente.
C’è poi un altro particolare, forse minimo e comunque significativo, che anche qui non pare sia stato notato da alcuno e che collega la Fama e le Nozze. Nella prima si afferma: “Essa promette più oro di quanto ne procurino le Indie al re di Spagna”. Le Indie Occidentali ovviamente, vale a dire le Americhe, note da oltre un secolo all’epoca della redazione del manifesto che è presentato come opera di autori contemporanei. Nelle Nozze si dice: “Il dono consisteva in una grossa e preziosa perla incastonata; era rotonda e lucente e non se n’era vista una simile né nel nostro né nel nuovo mondo”. Ovviamente anche qui il “nuovo mondo” si deve pensare all Indie/Americhe, ma è un paradosso perché nel 1459, anno in cui si dice si sia svolta l’avventura di Rosenkreutz, Colombo la sua scoperta non l’aveva ancora effettuata. Si deve quindi ritenere che sia un lapsus dell’effettivo autore, cioè Andreae, che scriveva nel XVII secolo. Una piccola incongruenza che potrebbe far pensare che le due opere siano state redatte dalla stessa mano, da sola o insieme ad altre: forse prima la Fama e poi le Nozze dove, come per forza d’abitudine, viene citato una seconda volta il “nuovo mondo” delle Indie Occidentali.
Esplosa la frenesia dei Rosa-Croce, si può così pensare che Johann Valentin, ormai trentenne, abbia deciso di dare alle stampe il suo anonimo “romanzo ermetico” giovanile, e che effettuò solo per l’occasione la cesura modificando il finale, non solo per incuriosire i lettori ma anche perché effettivamente era proprio avvenuto qualcosa sul duplice piano dei fatti e dei simboli. Rimarrà sempre il dubbio se in origine sia esistito un finale più lungo e soprattutto diverso, o se l’opera sia stata  scritta da subito con le “pagine perdute”.
Ma non è tutto. Potrebbe infatti esserci un ulteriore motivo per aver descritto una iniziazione che non è del tutto definitiva. A cinque anni dall’uscita della Fama, a quattro dalla Confessio e ad appena tre dalle Nozze chimiche, nel 1619 vede la luce Turris Babel, sive Judiciorum de Fraternitate Rosae Crucis chaos firmata con le sole iniziali I.V.A., in cui Andreae denuncia la degenerazione della Fraternità da quando si sono intromessi sulla scena, dice, “numerosi scrivani sfrontati che sotto falso nome, riversano tutto ciò che sanno e pubblicano rabbiosamente protetti dall’impunità”. In tal modo si era pervertito quello che Paul Arnold ancora una volta definisce “un gioco tra intellettuali con lo scopo di sollecitare nella gente un ritorno alla religione e al raccogliemento in se stessi”. Ora non è azzardato ipotizzare che questa degenerazione già si fosse cominciata a manifestare nel 1616 e che Andreae, venutone a conoscenza, abbia deciso di troncare bruscamente le Nozze senza far giungere Christian Rosenkreutz alla agognata e prevedibile (sino a quel momento) conclusione, quasi per scoraggiare gli impostori che volevano ricavar denaro alle spalle dei gonzi in nome della misteriosa Confraternita.
Non solo degenerazione, naturalmente, ma anche l’esagerata reazione pro o contro quest’ultima indussero Andreae ad una maggiore cautela per non essere compromesso e subire danni nella vita pubblica e privata (dal 1614 era diacono della Chiesa evangelica a Vaihinger nel Württemberg). Nel 1618, inoltre, era iniziata la disastrosa Guerra dei Trent’Anni che mise a ferro e fuoco l’Europa centrale con lo scontro cruentissimo fra cattolici e protestanti. Finché i testi rosacrociani circolavano manoscritti, fra amici e come si dice oggi fra “addetti ai lavori”, il ludibrium restò limitato ad una ristretta cerchia di persone: una volta diventato di dominio pubblico, esso cominciò a provocare una serie di reazioni inaspettate. E che si trattasse di un “gioco” intellettuale e spirituale di alto livello, e non una pura beffa o una esplicita ciarlataneria è lo stesso interessato a precisarlo sempre nell’autobiografia, là dove scrive, a proposito dei suoi successivi libelli Turbo (un dramma “faustiano” a sua firma del 1616) e Turris Babel (1619, siglato I.V.A., come detto), i quali alla Confraternita a loro volta fanno riferimento, che “era il problema del cristianesimo che mi stava a cuore e che io tentavo di risolvere con tutti i mezzi; e siccome non potevo farlo per la via maestra tentai di farlo mediante sotterfugi e pagliacciate, per niente mosso, come è parso a certuni, da intenti beffardi, ma ricorrendo a mezzi molto usati da persone pie, nel senso che con delle facezie e un’accattivante malizia perseguivo uno scopo serio e inculcavo l’amore per il cristianesimo” [corsivo nostro].
I clamores spaventarono molti amici di Andreae e lui stesso che tentò immediatamente dopo di raggiungre il suo “scopo serio” attraverso la proposta di una Fraternità Cristiana “ortodossa” in modo chiaro ed esplicito non solo con una Invitatio ad Fraternitatem Christi pubblicata nel 1617, cioè soltanto un anno dopo le Nozze chimiche, ma anche con Reipublicae Christianopolitanae descriptio del 1619, lo stesso anno della critica alle degenerazioni rosacrociane della Turris Babel, che descrive una comunità cristiana ideale e che quindi, sulla scorta della Utopia di Tommaso Moro di un secolo prima (1516), può ben definirsi, appunto, una utopia cristiana in controtendenza con il proprio tempo, ormai un tempo di guerre, di persecuzioni e di vendette.
In conclusione: Johann Valentin Andreae, da solo e con la collaborazione dei suoi colleghi del “circolo di Tubinga”, creò uno “scherzo mistico”, senza “intenti beffardi” ma con uno “scopo serio”, forse dapprima come “gioco” interno ad una élite intellettuale e religiosa, poi esternato proprio in un momento di grande tensione politica, culturale, spirituale di tutta la Germania, che attecchì in modo inaspettato e insperato e creò, fondò per così dire, poi trasmise nei secoli un “mito”, quello della misteriosa Confraternita o Fraternità dei Rosa-Croce che, ricollegandosi ad una tradizione esoterica (l’alchimia) e religiosa (il vangelo universale) prospetta una via di realizzazione interiore. Un vero e proprio Immaginario, nel senso più nobile del termine (esso infatti deriva da imus, profondo), Tutto ciò va ben oltre gli innumerevoli ciarlatani i quali nel corso di quattro secoli e mezzo si sono indebitamente apporopriati di un nome come quello dei Rosa-Croce: invece, spesso e volentieri sono gli unici ad attirare gli strali polemici, le frecciate sarcastiche di tanti moderni ricercatori, sociologi, semiologi, storici, letterati attenti soltanto all’aspetto esteriore più evidente e chiacchierato della questione.
Per fortuna, il mito di Christrian Rosenkreutz è bel altra cosa... Come la “favola” di Atlantide, raccontata da Platone nel Timeo e nel Crizia che ha fatto giungere sino a noi la vicenda di una società spiritualmente perfetta che degenerò e si perse, sino a meritare la punizione degli dèi quando dimenticò la scintilla divina che le era propria, così è per il ludibrium fictitiae della Rosa-Croce: esempi spirituali cui tendere, di tale pregnanza da esercitare una loro suggestione nei secoli, influenzando gli uomini e le loro azioni. Sono realtà metafisiche: non un controsenso, non un ossimoro, non un gioco di parole. Sono realtà perché hanno avuto una influenza concreta sulla storia e sulla cultura umane; sono metafisiche perché la loro origine, la loro consistenza, il loro valore vanno oltre, vanno al di là dell’aspetto materiale.
Ecco spiegato il motivo per cui ogni tentativo di smantellarle ricorrendo agli strumenti del razionalismo sia esso filosofico, che storico, che scientifico, non ha alcun senso. E non ha alcun senso, perché non è possibile applicare ad esse le categorie aristoteliche o il metodo galileiano: non si tratta nel loro caso di riscontrare unità di tempo e di luogo, o di cercarne la ripetibilità in laboratorio, e così via. Se ne possono soltanto vedere gli effetti nel corso della vicenda occidentale. Ed ecco spiegato anche il motivo per cui esse resistono a tutti gli attacchi loro mossi dalle agguerrite falangi degli “scienziati” e dei “ricercatori” moderni: sono troppo radicate nell’animo umano. Perché sono superstizioni, perché sono irrazionali? Sì, ma soltanto se s’intendono questi termini come qualcosa che va - anche qui - oltre e al di là della razionalità, un che di diverso dalla razionalità, non qualcosa che è contrario alla razionalità umana. Siamo su piani diversi: da un lato l’aspetto logico della mente, dall’altro quello religioso, spirituale e mitico. Non si possono confondere fra loro, hanno diversi pesi, misure, valori, giudizi. Ma insieme costituiscono due aspetti del modo di ragionare dell’essere umano, i suoi due emisferi cerebrali.
Sicché non val nulla, ma proprio nulla, affermare che l’Atlantide o la Rosa-Croce non sono mai esistite, provare trionfalmente che la prima è soltanto una “favola” inventata a scopo didattico da Platone, e la seconda un “gioco intellettuale” o tutt’al più uno “scherzo mistico” ideato da Andreae e dai suoi amici dell’Università di Tubinga. Vale molto, moltissimo provare viceversa che esse hanno lasciato una traccia indelebile nelle idee dell’Occidente, hanno portato la loro influenza nel pensiero e nell’atteggiamento spirituale. Ecco perché possono definirsi realtà metafisiche che restano del tutto indenni di fronte agli attacchi, ai sarcasmi, alle ricerche che vorrebbero provarne la non-esistenza, la non-storicità, la non-razionalità.
Proprio come la fenice, la mitica Atlantide e la mitica Rosa-Croce hanno dunque origine dalle loro stesse ceneri: dice Jean Pierre Bayard: “Grazie alla sua potente autorità morale e al suo valore iniziatico, quest’ordine si è creato da se stesso; ha avuto origine dal suo proprio mito”. Distrutte dal razionalismo portato alle sue estreme conseguenze, ridicolizzate dai sacerdoti dei Lumi che non vedono oltre il piccolo cerchio di chiarezza da loro prodotto, esse hanno comunque assolto alle funzioni che il mito automaticamente mette in opera una volta creato: un esempio da imitare, una regola da seguire, una meta cui tendere. E’ soltanto in questo modo che può venire spiegato il “mistero dei Rosa-Croce”, il suo potente Immaginario, è soltanto in questo modo che può essere capito attraverso i suoi simboli.

 

 

 

 

 

 

 

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